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Emozioni e vissuti dei familiari delle persone con Alzheimer

Oggi vorrei parlarvi di emozioni e vissuti, ossia di ciò che si prova dal momento in cui la malattia si affaccia nelle vite delle persone e le permea per molti anni, i lunghi anni della malattia.

In Italia oltre l’80% dei malati di Alzheimer vive al domicilio ed è assistito dai propri familiari, spesso per scelta, ma spesso per necessità ed impossibilità di decidere altro.

La figura che si prende maggiormente cura del malato, che si preoccupa del suo stato di salute e di benessere, che se ne occupa di più anche dal punto di vista pratico, viene definita caregiver.

Nella maggioranza dei casi, il caregiver è un coniuge (spesso anziano e a sua volta con problemi di salute) o un figlio (spesso non ancora in pensione e con una propria famiglia di cui occuparsi), oppure fratelli o nipoti e addirittura genitori (mamme).

L’esordio della malattia è insidioso e spesso difficilmente riconoscibile, sia da chi vive accanto al malato che dagli addetti ai lavori.

Diversi i motivi:

  • la malattia impiega molti anni per svilupparsi. Ci sono piccoli segnali, spesso trascurati perché sembrano banali, e che iniziano molti anni prima dei sintomi più evidenti;
  • alcune manifestazioni tipiche della malattia (es. perdita di memoria, difficoltà di concentrazione) si esprimono anche nell’invecchiamento fisiologico;
  • possono essere presenti altre patologie (es. depressione) che confondono il quadro;
  • non esiste un esame specifico che porti direttamente alla diagnosi: la diagnosi certa proviene solo dall’autopsia o da un’eventuale biopsia cerebrale che non viene di fatto mai eseguita. L’esecuzione di alcuni esami e test, oltre che la raccolta assieme ai familiari dei cambiamenti avvenuti al proprio caro e dei suoi comportamenti quotidiani, permette di ipotizzare la malattia con un alto grado di garanzia.

È un processo lungo quello che porta alla diagnosi, ha solitamente un tempo di alcuni mesi (o, talune volte, anni), periodo durante il quale il vissuto del malato e della famiglia è particolarmente faticoso.

Il malato si rende conto di non essere più lo stesso, di avere dei deficit che minano la sua persona e la sua identità e quindi è spesso depresso oppure agitato e nervoso, irascibile.

La famiglia si confronta quotidianamente con le stranezze del proprio congiunto, con la fatica assistenziale, con la speranza di ottenere alla fine una diagnosi diversa, con una costellazione di sentimenti che vanno dalla rabbia alla compassione per quello che sta accadendo ad entrambi.

Ciò porta a difficoltà relazionali e familiari che rendono la quotidianità molto faticosa: difficoltà con il malato e difficoltà tra i vari componenti della famiglia che non sempre la pensano allo stesso modo.

Passano quindi anche alcuni anni dai primi sintomi, spesso sottovalutati o camuffati, all’arrivo al Centro per i Disturbi Cognitivi e Demenze o allo specialista che segue poi il malato.

Io dico sempre che la diagnosi porta sicuramente due aspetti contraddittori:

  • Disperazione per l’ineluttabilità della patologia
  • “Un sospiro di sollievo”, nel senso di dare un nome a ciò che sta accadendo, con la possibilità di iniziare un percorso di gestione della malattia.

Da questo momento inizia infatti per la famiglia un percorso, lungo e difficile, di continua riorganizzazione quotidiana, adattamento ai cambiamenti e alle continue perdite del proprio caro che portano necessariamente ad un affaticamento psico-fisico del caregiver.

È chiaro che c’è nel familiare un peggioramento delle condizioni generali di vita.

Ma accanto alla disperazione, alla solitudine, alla rabbia, all’abbandono, … ci sono la speranza, la forza, l’amore.

Perché queste persone meravigliose, pur estremamente affaticate, sperano sempre che le condizioni di vita del proprio congiunto ammalato possano essere migliori di quanto la malattia faccia degradare. La speranza maggiore è che l’altro stia meglio, spesso sacrificando il proprio benessere.

Fra i caregiver prevalgono le donne (77%).

Sono donne che sono costrette ad abbandonare lavoro e vita sociale per occuparsi del proprio caro ammalato, oppure sono costrette a ritmi umanamente impossibili per conciliare lavoro e cura, cosa che interferisce con il loro benessere e l’equilibrio psico-fisico.

Da una parte il desiderio di curare nel miglior modo possibile il proprio caro ammalato, dall’altro il peso dell’impegno e della responsabilità totale e quindi il senso di colpa per non “poterlo/volerlo” fare.

Ci si chiede se si tratti di un retaggio culturale oppure di una predisposizione genetica, ma di fronte a due figli, un maschio ed una femmina, ed un genitore gravemente ammalato, è spesso (non sempre ovviamente) la femmina a ricoprire il ruolo di caregiver, sia che entrambi lavorino oppure no.

E questa donna è costretta a volte a sacrificare la sua nuova famiglia, i compagni e i figli o i nipotini.

E anche quando l’assistenza quotidiana è fornita da un uomo (es. il coniuge di una donna ammalata), spesso la cura rimane femminile perché ci si appoggia ad aiutanti sia familiari (es. le figlie) che a pagamento (le badanti): l’uomo delega più facilmente, è abituato al fatto che di alcuni aspetti si è occupata la donna e quindi è più propenso a farsi aiutare. In questo senso è più bravo a preservarsi facendosi aiutare e quindi a mantenere un equilibrio maggiore.

Quali sono i vissuti del familiare nel percorso di malattia?

  • Tristezza
  • Depressione e angoscia
  • Rabbia
  • Preoccupazione, paura e incertezza
  • Svuotamento di senso del futuro, oppressione
  • Imbarazzo
  • Senso di colpa, sentimenti di impotenza e inadeguatezza nello svolgimento del proprio ruolo
  • Solitudine
  • Nostalgia
  • Rassegnazione, accettazione.

Di cosa necessita il familiare?

  • Sostegno materiale
  • Orientamento sul territorio
  • Informazioni sulla malattia, psicoeducazione
  • Vicinanza emotiva, accompagnamento, condivisione
  • Sostegno psicologico nelle varie fasi della malattia.

Certamente la fatica è tanta, si impone una totale revisione dello stile di vita, dei modelli relazionali e delle modalità comunicative. Ma io sono convinta che è possibile, se supportati ed accompagnati, gestire la malattia e quindi affrontarla anziché subirla e quindi soccombere.

Ambiti d'intervento

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Dott.ssa Katia Stoico
P.I. 03668320967

Ordine degli Psicologi della Lombardia n. 6996
Laurea in Psicologia Clinica e di Comunità

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